Walter Pedullà, il critico cercatore di contraddizioni
Il nome di Walter Pedullà, nato a Siderno, in Calabria, il 10 ottobre del 1930 e venuto a mancare la notte scorsa, a Roma, rimane per sempre legato a quello di un certo Novecento che probabilmente non è mai finito e che egli, dal canto suo, non si è mai stancato di raccontare, mettendo in campo, com’era solito, tutti gli strumenti a cui la letteratura può e deve attingere quando si pone nell’esercizio di interpretare. In lui, nei suoi libri, nel suo operato di organizzatore culturale in veste di docente universitario, di critico militante, di giornalista e di intellettuale al servizio della comunità (fino alla presidenza Rai nei primi anni Novanta) c’è sempre stata una profonda condivisione tra visione del mondo e schema critico, come se il bisogno di raccontarsi che manifestano gli uomini, l’esigenza di dare ordine a qualcosa che nasce in forma di magma, cercassero una propria legge per diventare materia condivisa.
È questa la lezione che Walter Pedullà ci ha lasciati al termine di una vita spesa per la cultura, cominciata nelle lontanissime origini calabresi, che solo un paio di anni fa egli stesso ha voluto narrare in forma di autobiografia intellettuale nel Pallone di stoffa (2021). Il suo è stato un magistero di vita prima ancora che un metodo di lettura, iniziato all’ombra di un altro grande maestro del Novecento, Giacomo Debenedetti, e portato avanti con coerenza, senza distrazioni e ripensamenti, testimoniando una lunga fedeltà ai principi che sono parte della sua sconfinata curiosità di conoscere e che hanno assunto consistenza nei tanti libri di cui è costellata la sua carriera di saggista, dalla Letteratura del benessere (1968) al Morbo di Basedow ovvero dell’avanguardia (1975), da Miti. Finzioni e buone maniere di fino millennio (1983) al Novecento segreto di Giacomo Debenedetti (2004), fino ai più recenti Giro di vita (2010) e Il mondo visto da sotto (2016), solo per ricordarne alcuni. I nomi che si rincorrono nelle sue scorribande critiche sono quelli di Svevo, Tozzi, Gadda, Pagliarani, Malerba, D’Arrigo, Sciascia, oltre ai mai dimenticati conterranei Alvaro, La Cava, Strati. E ciò aiuta a comprendere che esiste un Novecento attraversato alla maniera di Pedullà, inauguratosi all’insegna delle avanguardie ribelli, dei movimenti in subbuglio, delle riviste figlie di una giovanile inquietudine che segnano il secolo senza abbandonarlo mai più, anzi facendo diventare un punto di forza qualsiasi elemento di debolezza, a partire dalle “armi del comico”, come indicava inequivocabilmente un titolo di un libro che apriva il nuovo millennio. C’è qualcosa che perseguita in ogni sua pagina la scrittura di Walter Pedullà: quella vocazione a scovare contraddizioni senza farne un dramma, a cercare chiavi di lettura là dove i decenni che ci siamo lasciati alle spalle paiono fermarsi a prendere fiato, sostare in una fase di stanca, al centro di rivisitazioni che sanno di riflusso. Tutto questo perché il Novecento è e rimane un territorio inafferrabile, contraddittorio, permanentemente refrattario a ogni tentativo di classificazione o di etichetta.
E proprio in virtù di questa fuggevolezza, che contiene infiniti pericoli ma proietta ovunque il suo fascino, i libri di Walter Pedullà mirano all’obiettivo di scovare una via d’uscita al grande laboratorio di idee e di forme che sono stati i precedenti cento anni, filano e sfilano gomitoli intorno alle questioni critiche più decisive (lingua e antilingua, romanzo e antiromanzo, stile alessandrino e engagement, centro e periferia), a volte si infilano dentro un orizzonte che in apparenza si dispone secondo l’immagine di una geometrica scacchiera e invece manifesta una natura da gnommero gaddiano. Anche questo ci resta: la brillantezza di stile, la disposizione a trasporre in tono perfino eccentrico gli snodi essenziali di una letteratura quanto mai disomogenea, l’inseguire le vertigini e i capitomboli di un’epoca che è addirittura andata oltre la soglia del postmoderno, elevando a miti le macchine e poi distruggendone il valore etico ed estetico. Il Novecento di Pedullà è un’esperienza che irrompe, capovolge, dissacra, mistifica, provoca, demolisce e ricostruisce. Nessun secolo ha generato un numero così esteso di antinomie, ha fagocitato nel breve spazio di qualche anno ciò che i letterati di un’altra epoca avrebbero masticato e digerito con chissà quanta lentezza. «Alfonso Nitti» – leggiamo in una delle tante citazioni – «entrò giovanissimo in un romanzo verista e uscì suicida da un testo che intanto era diventato un romanzo moderno quanto può esserlo uno di Joyce e di Proust». Una definizione così limpida non è affatto sinonimo di instabilità, semmai riproduce gli stessi capogiri che avvertiamo quando ci sporgiamo dalla terrazza di un grattacielo.
Fonte: Il Sole 24 Ore