Whisky italiano, il business ormai ha superato la fase artigianale

Whisky italiano, il business ormai ha superato la fase artigianale

Il single maltscozzese, ovvero il distillato di solo orzo prodotto da un’unica distilleria con alambicchi discontinui, dicono sia stato “inventato” dagli italiani. Un’esagerazione forse, ma non del tutto lontana dalla verità perché in effetti l’Italia ha sempre avuto una singolare passione per lo scotch whisky e se non ha decretato il successo del single malt, di certo ha contribuito a farne le fortune. Fin dagli anni 60 italiani come Silvano Samaroli, forse la firma più famosa tra i selezionatori di whisky, salivano in Scozia per scegliere e acquistare singole botti di distillato che, una volta imbottigliato in loco, prendeva la strada del mercato italiano. Sulla sua scia si sono mossi in tanti: dalla genovese Moon Import a Silver Seal, da Wilson & Morgan, dietro il cui nome anglosassone si cela la trevigiana Rossi & Rossi, all’altrettanto italiana Valinch & Mallet fino al recente duo tricolore Dream Whisky.

In Italia gli ultimi dati secondo Businesscoot parlano di un mercato che nel 2021 valeva 58,9 milioni di euro con delle proiezioni che danno per certa una crescita annua all’incirca del 5% almeno fino al 2027. Insomma, il whisky in Italia, per quanto se ne consumi poco, piace e piace soprattutto quello di fascia medio alta di prezzo.

Forse per queste due ragioni insieme, passione storica e mercato in crescita, oggi in Italia non ci sono solo i selezionatori ma anche i produttori di whisky. Pioniera in questo senso è stata l’altoatesina Puni, che dal 2012 in Val Venosta ha iniziato a produrre un distillato d’orzo. Per qualche anno è a dire il vero anche rimasta la sola, ma ultimamente le cose sembra stiano accelerando. Nel 2016 infatti, sempre in Alto Adige, è stato il turno della distilleria Psenner di entrare nel segmento dei whisky con l’eRètico, single malt maturato in botti ex sherry ed ex grappa e nel 2022 si è aggiunta la storica distilleria vicentina Poli, una delle più prestigiose firme della grappa italiana, che ha fatto debuttare il suo Segretario di Stato, un whisky invecchiato cinque anni e affinato in botti ex Amarone.

Il 2023 invece si chiude addirittura con un “triplete”. Il primo a salire sugli scaffali è il whisky di Villa de Varda, altra storica distilleria altoatesina che tuttavia non si limita a un solo imbottigliamento ma ne propone in simultanea quattro incluso il primo whisky di segale italiano, poi c’è il recente lancio di Ter Lignum, whisky frutto della collaborazione tra Birra Forst, azienda familiare birraria di lungo corso, e la distilleria Roner: un distillato che ha la particolarità di seguire il suo necessario affinamento in botti realizzate con tre legni diversi, da cui il nome: rovere, ciliegio e larice. E infine è ormai pronto al debutto il whisky sardo di Silvio Carta, prodotto partendo dal malto del birrificio Ichnusa.

Nel prossimo biennio sono attesi anche i whisky di Strada Ferrata, distilleria lombarda di recente costituzione, quello della toscana Nannoni, guidata da una delle poche master distiller donna, Priscilla Occhipinti, e soprattutto il whisky della veneta Bottega, una delle aziende leader nella produzione di Prosecco e di grappa che sul whisky sta puntando seriamente. Ovvero con investimenti di peso. Già perché, è bene ricordarlo, produrre un whisky non è come produrre un gin, cose che ormai in Italia sembra stiano facendo un po’ tutti con i relativi alti e bassi. Un whisky richiede un tempo legale minimo di tre anni prima di poter essere messo in commercio il che si traduce con una immobilizzazione di capitali che solo le aziende strutturate o con le spalle coperte si possono permettere.

Fonte: Il Sole 24 Ore