Yamamoto, la sua lettera al futuro in mostra alla Galleria 10 Corso Como

«Per me creazione significa realizzare qualcosa che non ho mai provato prima: ripetere le cose non è creazione. Lavorare così è un rischio continuo, certo, ma posso essere me stesso solo attraverso questo atto creativo. Sono sempre alla ricerca, esploro la forza della novità, per sorprendere in primo luogo me stesso». Parola di Yohji Yamamoto, santone della decostruzione e tedoforo impavido della radicalità dell’inventare, ancora e anche oggi che la moda privilegia di certo altri aspetti, anteponendo il mercantilismo all’invenzione, il profitto brutale alla creazione. Incrollabilmente se stesso, impossibilitato ad essere altro se non Yohji-san, Yamamoto è a Milano con la mostra Yohji Yamamoto. Letter to the future, visitabile fino al 31 luglio nei rinnovati spazi della Galleria di 10 Corso Como.

Non c’è lui, fisicamente, ma il suo pensiero, condensato in 25 creazioni che attraversano una carriera ormai cinquantennale, efficacemente esposti su busti da sartoria. Dice Alessio de’ Navasques, ideatore e curatore della mostra: «Da sempre Yamamoto si oppone alla monumentalizzazione del proprio lavoro e questo è un aspetto che si riflette nelle modalità scelte per presentarlo, ovvero esponendo gli abiti come tali e non come opere d’arte».

Parole alle quali fanno eco quelle dello stilista: «Preferisco continuare a creare le mie collezioni perché siano indossate dalle persone: gli abiti non indossati diventano oggetti e a me piace pensare ai miei outfit non come oggetti, ma come cose vive».

Non di retrospettiva si tratta, quindi. Piuttosto, di una esplorazione sincronica del lavoro di Yamamoto, che è insieme sempre uguale e sempre diverso, immobile ma mobilissimo. La curatela focalizza due temi nodali: il rapporto tra abito e corpo e il dialogo tra forma dell’abito e tempo, inteso come riferimento al costume storico. «Voglio disegnare il tempo», ha detto in passato Yamamoto, convinto della continuità insolubile tra passato e presente. Il percorso espositivo indaga l’opera dello stilista evidenziando la doppia spinta alla decostruzione e alla costruzione: uno yin/yang capace di riscrivere la grammatica dell’abito nel rapporto congiunto con la persona e con lo spazio.

Il vuoto tra corpo e vestito , così come il volume dell’aria che circonda il vestito, sono per Yamamoto quanto e forse più importanti dei pieni. È un portato della cultura giapponese, che quel vuoto plasmante lo chiama mā. Yamamoto è insieme crudo e lirico: un atteggiamento creativo che si concretizza nell’uso quasi esclusivo dei non colori nero e bianco, invariabilmente accentati dalla canalità violenta del rosso. Al fondo, però, anche quando è abrasivo, rimane qualcosa di malinconico nel suo canto di forme fluttuanti. Non a caso, poeta è la apposizione che più spesso gli viene attribuita.

Fonte: Il Sole 24 Ore